Mentre le ragazze della mia età facevano coi maschi prove di volo, io
facevo prove di abbandono. Dopo venti giorni di cinema, pizza,
normalità, avvertivo l’urgenza di non vederli più. Ricorrevo
all’addio tramite sms: “Non funziona”, come si trattasse di un
elettrodomestico. Un introverso mi rispose con uno squillo e sparì
nel nulla. Un logorroico mi scrisse una lettera di cinque pagine in
cui mi avvertiva che un dipendente era stato risarcito dall’azienda
perché licenziato tramite sms, concludeva con: “Quanti danni morali
dovrei chiedere io a te?”. Ora fa l’ avvocato. Un ricco mi comprò
un cellulare molto costoso per convincermi a richiamarlo. Non
accettai: mi piacciono i regali, non gli investimenti. Ora lavora in
Borsa. Un mammone, che mi aveva invitato a casa sua per presentarmi,
mi rispose “Mia madre ha preparato il pranzo, che le dico?”, gli
consigliai di dirle che non avevo appetito. Ora le presentazioni le fa
al ristorante. Con loro ero stata prevedibile, inaffidabile, seriale:
mai una foto insieme, una promessa, un ripensamento. Eppure, se li
incontravo per caso, ci tenevano a fermarmi, volevano a tutti i costi
offrirmi un caffè, azzardavano un contatto, mi chiedevano perché
fosse finita, io mi chiedevo perché fosse iniziata, perché non
m’insultassero, perché non sentissero l’oltraggio, l’orgoglio,
l’abbaglio. Avevo detto addio prima della fine: io per loro non
avevo fatto in tempo a diventare stanchezza, ero rimpianto, voglia
intatta, e loro per me non avevano fatto in tempo a diventare
mancanza.Ti ho conosciuto in pizzeria, a un cena universitaria. Stavi
seduto accanto a una ragazza, lei era di Latina, ma sosteneva che sua
nonna era regina d’Etiopia, tu la guardavi perplesso. Ho preso posto
accanto a te, ho pensato: sei tu. Un giorno quando racconterai ad
altri il nostro inizio dirai che stavi parlando con una principessa ed
è venuta a infastidirti una “zanzarina”, io ti dirò zanzarina a
chi?, ma nei tuoi diminutivi sentirò il sollievo di non dover essere
grande. Ci siamo rivisti un diciotto maggio alle diciotto, alla fine
delle lezioni mi aspettavi. Hai chiesto il mio numero di telefono a
un’amica comune e io l’ho rimproverata per avertelo dato. Paura di
te, delle nostre notti passate a passeggiare a vanvera per Roma, sai?,
mi sembra che certe piazze e certe strade le abbiamo viste solo noi,
non le ho più trovate. Mi hai portato in ristoranti sofisticati, ma
dal Cinese ti sei fatto coraggio e m’hai baciato. Due giorno dopo ho
provato a lasciarti: “Non funziona”, ti sei piantato sotto casa
mia, hai pianto, hai detto “Aggiustiamola” e ci abbiamo provato. A
insegnarmi come si tiene e si lascia tenere una mano ce n’è voluto,
io bravissima a scansare, mi prendevi la mano, indicavi un’insegna e
dicevi “tienimela fino a lì, manca poco”. Ho cominciato a cercare
la tua mano prima che tu prendessi la mia. Abbiamo noleggiato cento
film, non ne abbiamo seguito uno, abbiamo smesso di camuffare i nostri
difetti, la discesa del mio naso, la tua altezza, i tuoi capelli
arrabbiati, i miei più arrabbiati dei tuoi, il tuo ginocchio, la
cicatrice che ho vicino all’orecchio, “bella questa
malformazione” hai detto passandoci il dito sopra ed era come se la
disegnassi tu in quel momento, ti ho detto “allora è una
benformazione”. Abbiamo costruito un vocabolario nostro, di parole
minuscole ed esagerate, di progetti fatti, un figlio coi capelli
inevitabilmente arrabbiati e i denti a perle, tu gli insegni a guidare
la macchina ma io gli dico di andare piano, io gli scrivo le favole ma
tu gli spieghi come si sogna. I venti giorni erano scaduti da mesi,
anni, non tenevo più una contabilità precisa. La voglia restava
intatta e cresceva invece di diminuire. E mi mancavi anche quando
c’eri. M’hai dato un anello, ti ho detto “è largo” senza
nemmeno provarlo. In chiesa ci tenevi ad andare insieme, io non ero
praticante, non lo sono, però una volta ti ho accontentato. Il prete
recitava il primo comandamento: “Non nominare il nome di Dio
invano.” Il nome di Dio invano non l’avevo mai fatto, ma di addio
invano ne avevo detti tanti e dentro di me ho giurato di non
aggiungerne un altro. La nostra prima foto ce l’ha scattata un
marocchino. Io ho provato a dire no, niente foto, ma tu ci tenevi, hai
fatto quella faccia, quando facevi quella faccia io pensavo sempre
“perché no?”. È il mio compleanno, mi hai regalato il bracciale
col cuore, quello che guardando una vetrina ti ho detto che mi piaceva
e tu sei stato attento. Siamo nella stessa immagine: io pallida, quasi
trasparente, tu scuro; io col broncio costante, tu che sorridi e non
serve chiedertelo. A guardare bene, ci separa un’interruzione, un
precipizio, uno strappo netto: l’ho fatto io una sera in cui volevo
cancellare le nostre prove e un attimo dopo già l’aggiustavo con lo
scotch. La foto l’ho messa in una scatola insieme al bracciale col
cuore, all’anello, a tutte le lettere e le parole che non
c’assomigliano più. Ma forse un gesto è solo un gesto e una frase
è come tante, è chi la sente a caricarla di significato, cerco di
convincermi ogni volta che un ragazzo mi fa una carezza, le mani sono
mani, le tue, le sue, quelle di un altro, che differenza fa?, lui
segue i miei lineamenti, scende sul collo, poi risale, si sofferma
sulla cicatrice che ho vicino all’orecchio, penso: la benformazione,
e scanso la sua mano infastidita. Vorrei che le parole per me non
avessero tutta questa importanza, vorrei che non m’incatenassero a
chi le dice, a chi le ho dette. E maledico i ricordi felici perché
fanno più male di quelli feriti. Mi tornano in mente le vacanze
estive, l’immagine di me bambina, il bagno al largo. Gli altri
nuotavano dandosi slancio in lunghezza, con movimenti fluidi si
mischiavano alle onde, seguivano la corrente, io m’immergevo quasi
perpendicolare all’acqua, spingevo coi piedi, tenevo il respiro,
volevo misurare il fondo, toccarlo, prendere una manciata di sabbia e
portarla in superficie. Risalivo in modo scomposto, gli occhi rossi,
il fiato grosso, stringevo la sabbia bagnata in pugno e mi sentivo
più forte, sapevo cos’era il fondo, ero capace di toccarlo e
risalire, la corrente fino a quel punto era un pericolo che sapevo
gestire.Ho la gastrite, ma la Coca non rinuncio a berla: me la facevi
trovare già sgasata, prendevi un cucchiaino e le davi una girata. Ti
ho amato per queste accortezze, per le sciocchezze che mi venivano
concesse, perché non volevo essere saggia, volevo essere stronza e
ragazzina. Ti ho amato perché certe volte non riuscivo a essere
forte, volevo solo scivolarti tra le braccia e sentirti dire tutto
passa, tutto passa, pure se non era vero, tutto passa, tranne noi,
certo, tranne noi. Ti ho amato perché se non mangiavo avevo qualcuno
che mi sgridava, perché mi mettevi a tradimento lo zucchero nel tè,
perché se mi estraevano i denti del giudizio e avevo la faccia
gonfia, mi volevi baciare uguale, perché insistevi per vedere i film
horror e poi eri il primo a spaventarti, perché dopo un anno ancora
ti spiegavo come arrivare a casa mia e tu alzavi gli occhi e ripetevi
“la strada la so”, perché se camminavamo per strada curvavi le
spalle per sembrare più basso e io salivo su ogni gradino possibile,
perché se mi abbracci scompaio, perché una volta in macchina mentre
ci stringevamo ti sei scordato d’inserire il freno a mano e abbiamo
tamponato, perché quello che era normale diventava speciale, perché
eravamo uno pure se eravamo due, ma soprattutto ti ho amato perché tu
mi hai amata. Paura di te, della corrente. Eravamo al largo, così al
largo, dov’era il fondo?, dove la fine? Sempre meno mia e sempre
più tua. Dov’era il controllo? Dove l’autonomia?Da quando ti ho
lasciato, con un sms, mi comporto come se potessi incontrarti ovunque:
a una mostra, una presentazione, in qualunque luogo pubblico mi trovi,
tengo fisso lo sguardo sulla porta, aspettando di vederti entrare,
cerco di farmi trovare sorridente, in buona compagnia, tra persone di
successo e se qualcuno mi parla sottovoce e si fa audace, penso: se
solo entrassi adesso, adesso, in questo momento, sarebbe un quadro
perfetto. Da quando ti ho lasciato, ogni mio momento è recitato come
se tu dovessi assistere. Lavoro vicino casa tua, ma allungo la strada
per non passare lì sotto, ho il terrore d’incontrarti insieme a
qualcuna, le tue mani sui suoi fianchi, vedervi attraversare la strada
in fretta, con la certezza di finire sul letto e addormentarvi
stanchi. Ma ci s’incontra anche in una città enorme e senza farlo
apposta: ci vediamo all’ospedale, io sono radioattiva, ho appena
fatto una lastra, tu esci da un esame. Non ci tieni a fermarmi, non mi
offri il caffè, a stento un cenno, mi dici parole indegne di te e di
me, di noi, vorrei spiegarti, ma spiegarti cosa?, che la paura
dell’abbandono fa fare cose assurde, che per paura di sentirsi dire
addio un giorno, si pronuncia per primi e subito, mi chiedi “come
stai?” e finalmente lo ammetto “male”, mi guardi tutta e dici
“non sembra”, “tanto tu sei forte, sei saggia”, sì, io sono
forte, sono saggia, “tu non ce l’hai il cuore come tutti gli
altri”, già, io non ce l’ho il cuore come tutti gli altri,
perché io ne ho uno solo di cuore, gli altri ne hanno almeno uno per
ogni occasione. Mi accompagni alla macchina, salgo, provo a mettere in
moto. Niente. Provo di nuovo, provi anche tu ma il risultato è lo
stesso. Non ho vinto io, non hai vinto tu. Spingiamo la stessa
macchina che non è partita, non ha funzionato e non si sa perché,
dev’essere la batteria, la benzina c’è, i presupposti per andare
lontano c’erano. Spingiamo e parliamo, le tue parole affilate, le
mie così vaghe. Penso: ti sto dicendo mille frasi adesso, ma vorrei
dirtene solo una e non riesco